Di Fernando Pardini • 5 Set 2012 • Rubrica: diVini, Il vino in dettaglio

 

DOLCEACQUA (IM) – Dolceacqua non è come mi aspettavo. E’ molto di più. Perché Dolceacqua, a ben vedere, non è solo un vino, ma un modo di viverlo. E’ un microcosmo sospeso fra passato e presente in cui si realizza il miracolo, o l’illusione, di annullare il tempo. In questa strana dimensione spazio-(a)temporale, il vignaiolo assurge a figura chiave di una storia più grande, che abbraccia i destini delle genti e dei luoghi. Un mestiere che ancora oggi, come cento anni fa, lega ingenuità ed intraprendenza al filo sottile dei ricordi e dei lasciti, di cui il frammentato e magnifico vigneto di Dolceacqua ne è l’esemplificazione massima e la testimonianza più preziosa, capace di resistere alle dimenticanze, al disincanto e agli abbandoni. Che qui, come in altre campagne della nostra penisola, hanno generato a suo tempo ferite, abusi, dolorosi cambi di rotta, con gli immancabili e provvidenziali ritorni.

Dolceacqua, in fondo, significa unicità di vigneto. Nel senso di singolarità, ovviamente. E’ lui il vero protagonista di questa storia, è lui lo scrigno insostituibile di biodiversità. Le centinaia di chilometri di muretti a secco costruiti nei secoli sorreggono sculture naturali incastonate fra roccia e terra: sono gli alberelli di Dolceacqua, ceppi non di rado centenari, in alcuni casi franchi di piede, a costituire un patrimonio viticolo che ha pochi eguali e marca la differenza. Anche nella immedesimazione di uno scribacchino enoico, che trova finalmente qui, a ridosso del confine francese, il senso in più troppe volte invocato e quasi mai concretizzato dal giovane vigneto Italia. Sì, queste opere scultoree della natura da sole valgono il viaggio. E contengono le risposte.

 

Il futuro di questa gente caparbia resta appeso alla fisionomia ingenua e struggente del Rossese, un vino che non gioca la sua partita sugli attributi, sul peso estrattivo, sul colore o sui tannini. Casomai sull’esatto opposto: snellezza, profumi, agilità. E su un caleidoscopio di accenti e sottolineature spesso solo sussurrati e mai imposti, come un soffio di bellezza apparentemente fragile. Alimentati dalla forza ispiratrice dei vari terroir a disposizione, non sono altro che vini artigiani, per numeri e/o per stile, con le molteplici varianti del caso: da quelli con le proverbiali velature o riduzioni giovanili, scabri e reattivi, rugosi e ruspanti, fino alle espressioni più nette e rifinite. Non sono che l’incanto di un vino sospeso, istintivo, “finto semplice” per eccellenza, nei casi migliori dotato di una finezza aromatica e di una leggiadria nel tratto gustativo coinvolgenti. La dignità di un prodotto della terra si misura dalla fiera diversità organolettica. Non c’entra nulla la complessità. Il Rossese è un vino diverso, questo è, fin troppo sbrigativamente rubricato come una sorta di fratello minore del Pinot Nero o, per altri versi, della Grenache. Nulla di tutto ciò: ristabiliamo le distanze! Restituiamo dignità e “capacità di racconto” -come ci avrebbe detto Gino Veronelli– a questo vino piccolo nei numeri ma immensamente gratificante nella sostanza. Certo, 300.000 bottiglie annue sono una goccia nel mare. Ma se è una goccia diversa dalle altre, val bene il mare attorno.

Nel frattempo, una girandola di immagini affollano la mente, tutte meritevoli di un pensiero, di una parola. Loro sì che rafforzerebbero l’idea. Eppure, sono restìe come i segreti più intimi a rivelarsi nel rassicurante tracciato di un racconto ordinato. Sono scosse emozionali, piccoli palpiti, impressioni naif come in un quadro di Barbadirame, il pittore bohemien di quei luoghi, amico di Picasso. Sono la natura colorata e struggente di San Biagio della Cima, la ginestra e il lentisco, il timo serpillo e l’orchidea selvatica, i preziosi inserti fossili di ostrea acuminata rinvenuti nel terreno del Posaù. Sono gli alberelli parlanti, e centenari, del vigneto Beragna, commovente inno alla perseveranza. Sono un delizioso rosatello d’annata -che mai confluirà in una etichetta – che “il Manciné“, quasi fosse uno strumento di lavoro, si porta appresso sul camioncino per dissetarsi alla bisogna nei primi caldi di giugno. Sono le ”alte vie” liguri, che toccano qui vertici assoluti di bellezza paesaggistica. Sono la vertigine bianca dei calanchi, inattesi e ammonitori sulle alture di Arcagna. E il vento sferzante del pomeriggio, che ti coglie all’improvviso e ti confonde. Sono l’asino “liberato” di Luvaira, custode curioso e impertinente delle colline di Soldano, sono la bicicletta beffarda e visionaria issata sulla cima del campanile di Apricale, sono la bellezza segreta dei carrugi di Dolceacqua, lì dove ti vien più facile l’innamoramento. Sono il respiro autentico dei vini che ho bevuto. Sono il più straordinario coniglio alla Ligure dei ricordi miei, grazie alla mano ispirata di casa Anfosso, gustato nella magia calda e ventosa di una giornata di fine maggio, in buona compagnia. Sì, anche in questo caso ho respirato aria di “cru”. E alla fine del salmo ho realizzato che Dolceacqua non è come mi aspettavo: è molto di più. E’ quello che ci vuole.

Ringraziamo l’associazione Vigne Storiche di Dolceacqua per l’opportunità offertaci, il supporto logistico e soprattutto umano. Per la caparbietà e la lungimiranza di guardare con umiltà, occhi diversi e rispetto antico, al futuro della propria terra.